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La fotosintesi

un testo di Letizia Muratori

Un pomeriggio del 1979 smisi all’improvviso di parlare. Avevo sette anni e mezzo, quel mutismo durò ventiquattr’ore e, dolore alla mascella a parte, non ebbe conseguenze apprezzabili sul momento.

Certo, i miei si preoccuparono un po’, ma visto che comunicavo con loro scrivendo biglietti e ogni tanto mi sfuggiva pure qualche espressione, la presero come una delle mie solite stravaganze e aspettarono che passasse, insieme alla febbre. Ricordo che i miei si chiedevano cosa avessi visto, magari in Tv, cosa mi avesse spinta a quel silenzio forzato. Io gli rispondevo scrivendo su un biglietto: «Niente». Lo scrivevo grande, in stampatello. Grande come la storia intera che però non sarebbe entrata sui fogli a quadretti del mio blocco.

Comunque la Tv, per una volta, era innocente. Tutto era iniziato a scuola, il giorno prima che mi venisse l’influenza, quando la maestra ci spiegò la fotosintesi clorofilliana. Mi convinsi, senza incertezze, che le piante mangiavano aria e con l’aria mangiavano tutte le nostre parole. Interminabili discorsi stavano infilati nei fusti degli alberi, compressi, in attesa dei raggi di luce che li facevano diventare verdi. E se fossero scoppiati? Se a un certo punto, per colpa della guerra, del terremoto, del giorno della fine di cui parlava il Vangelo, tutto ciò che tutti gli uomini avevano detto nel corso del tempo fosse uscito fuori dal corpo delle piante? Come sarebbe stato questo mondo esploso e invaso di voci sopravvissute ai loro proprietari? Un incubo. Non volevo nemmeno pensarci, cacciavo via quella scena come potevo, anche con le mani. Senza contare che, come tutti i ragazzini, mi sentivo immortale. La mia idea della morte era la morte degli altri. E se, vagando sola, avessi sentito la voce di mia madre che parlava con la me di prima? Di fronte a questa prospettiva dolorosa, chiusi la bocca. Ciò che avevo detto in sette anni era sufficiente, non volevo più dare da mangiare le mie parole alle piante.

In silenzio cominciai a preparare un piano di sopravvivenza. Prima di tutto una mappa, perché c’erano alcuni posti gonfi di discorsi, luoghi assolutamente da evitare, come la casa sull’albero della nostra casa al mare. Già me la vedevo scoppiata, con i resti delle tendine bianche rimasti impigliati ai rami e tutt’intorno al disastro galleggiavano le mie vecchie risate o le conversazioni insensate di mia sorella, quando il caldo filtrava giù dal soffitto a lame. Anche se mi fossi messa a saltare non avevo speranza di raggiungere quelle voci sorde e passate, di scacciarle con le mani per farle smettere. Tutto il giardino era pericoloso, uno scrigno di avanzi sonori. Ogni giardino, pure quello in città dove andavo con mia nonna, il parco, pieno di altre nonne sedute sulle panchine.

Un posto apparentemente sicuro sulla mappa era il mare, invece. Anche il fiume. Potevo tuffarmi e resistere sotto il più a lungo possibile, ma poi sarei riemersa perché non ero un pesce, nemmeno una tartaruga di quelle con le pinne. E chi mi garantiva, poi, il silenzio delle alghe? Anche loro erano piante, potevano rovesciarmi addosso il respiro affannato di gente che aveva nuotato prima dell’esplosione, le chiacchiere confuse di chi aveva preso il sole sulle barche.

Non era sicuro nemmeno il mare, passai ai campi, allora non conoscevo ancora i deserti. Nei campi però c’erano i corpi degli animali morti o, peggio, i corpi degli uomini intrecciati che avevo visto, stavolta sì, in Tv, nel documetario che si chiamava Olocausto. Cosa potevo fare? Tapparmi le orecchie aggredite dalle grida che venivano fuori dalle spighe, dai petali delle margherite e coprire tutto ciò che andava coperto con le strisce di lana che molti bambini della mia età facevano girando la manovella di un gioco: La maglia matta. Chilometri di maglia matta sarebbero serviti a far volare finalmente in cielo un unico uomo con mille braccia e mille gambe. Sparito l’unico uomo morto, io ero al sicuro? No, perché dovevo mangiare, E come potevo ingoiare frammenti di pomodori, zucchine, frammenti di verdure parlanti? Cosa ne sarebbe stato della mia testa se la riempivo di estranei? L’alimentazione corretta, durante la sopravvivenza, mi convinsi, era solo liquida. Dovevo mettere lo zucchero nell’acqua, lo zucchero sembrava fatto di vetro e il vetro è muto quasi come una pietra. Prevedevo, però, terribili mal di pancia. Se solo avessi trovato le chiavi della mia casa appese a un palo in mezzo alle macerie potevo tornare a prendere il cibo rimasto in frigo. Nel frigo c’era di sicuro il formaggio che mi piaceva, anche se era diventato verde, non era il verde luminoso delle foglie. Trovate le chiavi di casa, mi toccava fare scorta in fretta, prima che i rampicanti del balcone mi tirassero di nuovo dentro il passato che era fatto di parole, ma ora era il presente e faceva solo rumore. Sfuggita ai rampicanti, non mi restava altro che correre, e se non c’era più un posto dove scappare potevo sperare di esplodere anch’io, senza fiato, come quando finita l’ora di ginnastica il cuore mi batteva forte. Correre, dunque, ovunque; attraverso le case degli altri, con i loro quadri, le finestre, i divani, i letti. Uscire dalle case per correre nella sale dei musei dove ci portavano in gita. Correre dai musei fino in Grecia, in Africa, in Asia, e se fossi sopravvissuta anche al triplo giro del mondo ci sarebbe stato un punto in cui, girando e girando, i miei occhi avrebbero visto tutto distorto, perfino sollevato dal terreno, leggero, come sulla Luna. Come nel silenzio profondo dell’universo dove scappano i rumori e non hanno più speranze di tornare sulla Terra. Questa soluzione buia mi trasmise una specie di gioia che somigliava alla calma vegetale, scomparve il peso che è la paura, e ricominciai a parlare. Era una storia grande questa, non entrava nei fogli a quadretti. Grande come lo spazio rinchiuso in quel «Niente» scritto in stampatello.